QUANDO LA VERITA’ DIVENTO’ LA NOSTRA VERSIONE DEI FATTI

“Domenica, 27 Agosto 2006. Sono le 5 del mattino, all'uscita di un’ iniziativa reggae sulla spiaggia di Focene (Fiumicino), due ragazzi e una ragazza sono stati aggrediti a freddo da due individui. Renato è morto.”

“E’ finita la festa? Allora che cazzo state a fa qui? Andatevene a Roma! Merde!” E’ bastato questo breve prologo ad anticipare i 40 secondi più sconvolgenti della vita di Renato. 8 coltellate, una alla coscia, le altre al petto di cui due al cuore. 40 secondi che lo hanno ucciso davanti a Laura, la sua compagna, e Paolo, ferito anche lui da due coltellate alla schiena.
Chi ha ucciso Renato è sceso dalla macchina con il coltello in mano ed ha mirato direttamente al petto, 8 colpi, 40 secondi.
Questa verità, da subito evidente dai racconti di Paolo, Laura e di Renato stesso, emerge anche dai giornali del giorno successivo all’accaduto. “Un fatto terribile – commenta un investigatore su il Messaggero del 28 agosto – i due assalitori hanno agito a sangue freddo, quasi con premeditazione”. Nello stesso articolo è scritto che “due giovani scendono da un’auto con i coltelli in pugno. Un pretesto e aggrediscono tre coetanei”. Per il Corriere della sera dello stesso giorno “uno dei due, robusto e vestito di scuro, è sceso già con il coltello in pugno”, mentre secondo il Tempo l’assassino “scende come una furia e si getta su Renato, menando fendenti (…) in rapida successione”.
Dal giorno successivo questa verità diventa la nostra versione dei fatti. L’aggressione diventa una rissa. Le vittime diventano attaccabrighe come i loro assassini. Renato si trasforma in un balordo. La sua famiglia, i suoi amici e i suoi compagni hanno dovuto immediatamente riprendere parola: una conferenza stampa, le lettere aperte alla città e ai giornali, le manifestazioni del 2 (a Roma) e del 23 settembre (a Fiumicino), gli interventi durante varie iniziative culturali nella città, a cui si sono aggiunti la solidarietà e il sostegno da tutta Italia, dai compagni di Dax ad Haidi Giuliani. Rifiutando di archiviare la vicenda di Renato come una delle tante storie di emarginazione e di follia, si è iniziato così un percorso per restituirle il suo reale significato culturale, sociale e politico.
L’omicidio di Renato è stato infatti decontestualizzato dalle sue cause e riscritto in modo da risultare compatibile con un’immagine pacificata di Roma: non si è voluto tener conto di quanto sia grave la situazione a Fiumicino per l’intolleranza e il disagio sociale, del fatto che quel locale, teatro del delitto, sia riconosciuto nella zona come un ambiente di sinistra (perché gestito da Rifondazione Comunista) e che avesse già subito diverse intimidazioni, della croce celtica con la scritta “forza e onore” tatuata sulla schiena di uno degli aggressori. Esclusa la pista politica, quanto successo è stato invece descritto come una “rissa per futili motivi finita in tragedia”. Un episodio relegato nelle cronache locali, a cui non è stata data importanza né dal mondo politico né da quello dell’informazione, come invece si è verificato per i fatti dell’11 marzo a Milano. Ciò che è successo a Renato è estremamente grave, anche e soprattutto sotto l’aspetto politico, e richiederebbe una presa di posizione altrettanto diffusa. 
Ma se tutto ciò viene bollato come un’esplosione di isolata e immotivata follia, è perché l’immagine che si vuole e si deve dare di Roma è quella di una città felice, di un bacino di grandi eventi nonché luogo di incontro tra culture. Roma, vivendo della sua immagine, non può ammettere che un fatto così tragico abbia invece delle forti radici sociali e culturali. Non può ammettere che ci sia un contrasto effettivo tra realtà sociali che vivono in modi completamente diversi la città: da chi produce contro-informazione, socialità e partecipazione, a chi diffonde violenza, sopraffazione e intolleranza per il “diverso”.
Non abbiamo semplicemente preso le parti di un amico. Non abbiamo dato la “nostra versione dei fatti”. Prendere parola ha significato cercare di far assumere a tutti, nei confronti di una situazione sociale che si sta affermando e che non si può più ignorare, le proprie responsabilità. Non le ha assunte chi è rimasto in silenzio, chi chiude gli occhi, chi rimane in una posizione di equidistanza tra le parti. Non si può continuare a raccontare la favola degli opposti estremismi, delle bande rivali, dei balordi. Renato non è morto per una lite tra balordi perché lui non era un balordo. Noi non siamo una banda. Quei quaranta secondi, quei due ragazzini di 17 e 19 anni, hanno ucciso uno chiunque, tutti noi.
Ora non è più tempo di avere il fiato corto, ora è tempo di verità, ora è tempo di decidere, di assumere una posizione, di denunciare e rendere pubblica una realtà che questa città sta vivendo. E’ tempo di dire la verità e di costruire quello spartiacque necessario a isolare chi ha costruito e sta costruendo campagne di odio, violenza, revisionismo storico.

Il quadro è allarmante. Da qualche anno infatti la destra estrema ha dato vita ad un rilancio forte dell’iniziativa, costruendo un laboratorio della destra sociale nuovo, che va indagato e contrastato. Dagli stadi alle occupazioni (dette OSA, occupazioni a scopo abitativo, o ONC, occupazioni non conformi), dalla produzione di circuiti alternativi musicali a iniziative cosiddette di carattere culturale, associazioni culturali, loghi, magliette, gadget, una moda, un parlare ed un linguaggio che attraversa molti giovani dei nostri territori. Ha messo in campo false battaglie sociali, tentando di imitare iniziative di lotta che ci hanno sempre contraddistinto come “sinistra”. La destra estrema ha attivato la riscrittura della storia che vede i torturatori simili ai torturati. 
Destra, estrema destra, tessuto sociale. Questa penetrazione del politico nel sociale aggrega proprio tra le fasce più marginali di questa città, in quel mondo fatto spesso di disoccupazione, in territori periferici dove le contraddizioni sono più aspre e dove il terreno dell’iniziativa politica è ormai stato abbandonato da anni o si è trasformato in attivazione civile perdendo il legame con le contraddizioni materiali. Questo modo di agire che produce identitarismi, linguaggi e pratiche di azione che sembrano rispondere alla rabbia che moltissimi individui covano verso le difficoltà della vita e della società.
Noi non accettiamo che questa città ospiti, tolleri, faccia finta di niente, si giri dall’altra parte di fronte a tali realtà.
C’è bisogno di rimettere al centro una verità e cioè che non c’è spazio per questi personaggi, che questa città non può ospitare il Mausoleo alle Fosse Ardeatine, il Museo della Shoah, ed i covi neonazisti. Conosciamo un’altra città, quella delle lotte sociali, della società civile, dell’autogestione e dell’autorganizzazione, dei sindacati, della solidarietà, delle associazioni di quartiere e culturali.

Oggi bisogna parlare, non avere paura, rompere con l’idea che la democrazia significhi equidistanza o indifferenza ammantata da una finta tolleranza e tornare a raccontare la storia non solo come fredda memoria, ma come quella contemporaneità dentro la quale la storia si inserisce.


I compagni e le compagne di Renato

 

This entry was posted in Contributi. Bookmark the permalink.