Lama e muretto / fascista perfetto

di Lanfranco Caminiti

Un ragazzo, Renato Biagetti, è accoltellato mentre aspetta di tornare a casa dopo aver passato la notte in una discoteca sul litorale romano, gestita da una cooperativa di sinistra, dove è andato con la fidanzata e un amico. Il ragazzo viene soccorso e arriva in ospedale ancora cosciente. Muore poco dopo.

Lo hanno aggredito in due. Dopo un paio di giorni vengono arrestati. Le istituzioni – prefetto, sindaco – esprimono soddisfazione per la solerzia delle indagini. Degli aggressori, uno ha diciannove anni e l’altro diciassette. Fanno ritrovare il coltello che avevano seppellito. Qualcuno ne parla come ragazzi «normali»: sì, uno era un po’ fuori di testa, ultimamente viveva da sbandato, l’altro è bravo a scuola, gioca bene a calcio; che non ci si può credere abbiano commesso un gesto così. Come se uno ce l’avesse scritto in faccia da sempre. Sono un accoltellatore.

Il ragazzo ucciso, Renato, stava in un centro sociale, l’Acrobax. I suoi compagni non vogliono sentir parlare di «rissa», non vogliono sentir parlare di «balordi». Forse l’aggressore ha un tatuaggio con la croce celtica, forse no, ma non è questo che conta: lo sanno tutti, gli amici e i compagni di Renato per primi, che questa non è un’azione decisa a tavolino, nata in una sede politica. Ma questo non ne attenua il segno: e il segno è il fascismo.

In una conferenza-stampa distribuiscono un dossier con un elenco delle aggressioni in tutt’Italia davanti ai centri sociali, oppure contro immigrati, omosessuali, sugli autobus, per strada, dove capita. È un elenco impressionante. La percentuale di fatti accaduti a Roma fa ulteriore impressione.

È in questo clima – dicono quelli del centro sociale e un’assemblea di movimento – che può maturare un gesto simile, in questo ambiente di squadrismo, di disprezzo, di odio, di morte. Verso gli altri, i diversi, gli  «anormali». Verso tutto.  Me ne frego. A noi.

Qualcuno dice che non c’è a Roma, in Italia, il pericolo d’un fascismo risorgente: non c’è il fascismo, no, dicono, ma ci sono i fascisti. Vero. Però, è pure vero quest’altro: non ci sono più le camicie nere, l’orbace, i manganellatori, i golpisti, gli stragisti, ma il fascismo resta. Resta come una cancrena di questo paese.

Bisogna tenere la testa fredda. Si cerca di «capire» cosa può armare d’una lama la mano di un ragazzo di diciannove anni: si prendono a prestito le parole della sociologia urbana, della psicologia sociale: si parla di disagio giovanile, di periferie degradate, di problemi familiari, di abbandono scolastico. E la globalizzazione che avanza e sconquassa, e i valori che crollano. Va bene. Non si vuole giustificare, certo, ma provare a intervenire, prevenire, curare, operare. Non tutte le prepotenze finiscono in coltello, non tutte le arroganze terminano in aggressioni, non tutte le sopraffazioni si tramutano in «caccia al diverso»: bisogna distinguere se si vuole intervenire. Politicamente, istituzionalmente. Si chiamano in causa le amministrazioni, perché destinino fondi, promuovano progetti. Vero. Però, bisogna pure chiamare le cose col loro nome. E qui da noi la supremazia, la voglia di potenza, l’intolleranza, il potere hanno un nome proprio, perché questa è la nostra storia, e il nome proprio di tutto questo è: fascismo.

Alla curva dello stadio, al baretto, al muretto, tutta quella mitologia, le svastiche, le croce celtiche, le braccia tese, i busti di Mussolini, i poster in camera, gli opuscoletti di merda, le lame in tasca come «arditi», le scritte e le parole contro gli ebrei, e i negri che puzzano e gli arabi che stuprano e gli slavi che rubano e le ragazze tutte puttane e so’ tutti froci, e l’Italia agli italiani, tutte quelle cianfrusaglie della testa che rapide come un veleno mortale stravolgono un ragazzo qualunque, «normale», in un accoltellatore, tutto questo non è paccottiglia: questo è fascismo.

C’è sempre stata una destra «rispettabile» in questo paese, certo, c’era persino durante il fascismo. C’è sempre stata una destra «culturale» o «liberale» o «moderna» in questo paese, certo. C’è sempre stata una destra sociale, sindacale, certo, attenta alle questioni del lavoro. E c’è sempre stato un ventre molle fatto di qualunquismo, di indifferenza, di egoismo, di girarsi dall’altra parte, che appoggia, sostiene ogni parola, ogni gesto che serva a fermare qualunque dinamica che smangia i privilegi, apre le porte alla democrazia e alla partecipazione, riduce i poteri grandi e piccoli. È l’«anticomunismo». Me ne frego. A noi. In nome dell’«anticomunismo» tutto è lecito. Lo è stato. È storia. È qui che si mesta nel torbido. È qui che i confini tra le destre perbene e le destre permale si fanno più sfumati e confusi.

Ora, io continuerò a chiedermi perché un ragazzo di diciannove anni oggi si tatua una croce celtica sul braccio o si arma di fascisteria e aggredisce i «diversi» o le «zecche», a Bari, a Treviso, a Palermo o a Milano. Continuerò a chiedermelo, cercherò di capire. Cerco pure di capire perché in Russia, oggi, pochi giorni fa, due ragazzi «nazisti» portano una bomba in un mercato di immigrati e uccidono e feriscono centinaia di persone, perché volevano colpire gli «asiatici». Continuerò pure a chiedermi – quest’estate non si è parlato d’altro – perché un ragazzo di diciassette anni mentre la Germania crollava e gli ebrei scomparivano nei forni si arruolava nelle Waffen SS o andava nella Repubblica di Salò a «difendere l’onore». Però, ecco, ogni parola deve stare al suo posto e ogni cosa pure: questa è l’Europa, questa è l’Italia. Ciò che è «antidemocratico» qui non assume la veste di ciò che è «conservatore» ma prima o poi ha sempre indossata una maschera odiosa: quella del fascismo.

C’è un «umore nero» dentro casa, la «catena alimentare» del fascismo comincia dal plancton e dai pesci piccoli, dai gesti piccoli, dalle parole piccole. Se siamo d’accordo su questo, magari non saremo più antifascisti, ma rimarrà l’antifascismo come valore dell’oggi.

 

Roma, 2 settembre 2006

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